LA VIA DEL RICICLO



di Giuseppe Capparella, vicepresidente TMP


La conservazione delle risorse passa anche attraverso il riciclo. Per ottimizzarlo basta pensare in ottica di progettazione per il disassemblaggio


Viviamo un momento dove sono in molti – politici, imprenditori, giornalisti e cittadini comuni – a riflettere e discutere su come migliorare i sistemi produttivi, ridurre gli scarti e difendere l’ambiente da ulteriori inquinamenti. In questo contesto, sta emergendo sempre di più il concetto di economia circolare con lo scopo di conciliare la crescita economica con la scarsità di risorse naturali. Questo nuovo modello è basato sull’idea che è possibile creare valore riutilizzando i prodotti a fine vita, riducendo al contempo la quantità di rifiuti e il consumo di materie prime. Un modello che chiede di ripensare i criteri di design, produzione, distribuzione e consumo dei prodotti, allungandone il ciclo di vita, incentivandone l’uso condiviso a scapito del possesso e facilitandone il riuso o riciclo a fine vita.

L’economia circolare è un concetto applicabile a tutti i beni e tutte le materie prime, anche se è più frequentemente associato alle plastiche, che in questo periodo vengono acclamate dai media come l’origine di tutti i mali. Rispetto ad altri materiali prodotti in quantità maggiori – 1,6 miliardi di tonnellate di acciaio prodotte nel 2015 contro 0,32 miliardi di tonnellate di plastica –, il riciclo e riutilizzo della plastica ha una maggiore complessità, poiché non è composta da un singolo polimero, ma da diversi con caratteristiche chimico-fisiche anche molto differenti l’uno dall’altro. Oggi si impiegano principalmente due metodi per riutilizzare le plastiche a fine vita: l’incenerimento o recupero energetico e il riciclo meccanico. Il primo, a volte sfortunatamente senza recupero di energia, consiste nel bruciare gli scarti plastici in inceneritori usati per tutti i rifiuti casalinghi. Il potere calorifico dei polimeri plastici non ha rivali: si pensi che una bottiglia del latte in polietilene ha lo stesso potere calorifico di un litro di petrolio. Ovviamente, gli inceneritori devono essere di ultima generazione e rispettare tutti gli standard antiinquinamento previsti per lo scarico di fumi e di ceneri.

Il riciclo meccanico prevede, invece, la trasformazione degli scarti plastici – attraverso operazioni di separazione, granulazione, lavaggio e calibrazione – in nuovi granuli che in teoria dovrebbero essere riconvertiti in nuovi prodotti. Questo processo è tutt’altro che semplice. La prima operazione critica è la raccolta dei rifiuti, che dipende in buona parte dalla buona volontà di tutte le parti coinvolte: dalla casalinga al comune, all’industria del riciclo e alle leggi imposte nel paese. Il trasporto è un altro fattore chiave: la bassa densità delle plastiche ne impedisce di fatto lunghi percorsi a basso costo. Ma lo step più difficile è sicuramente la separazione dei diversi tipi di plastiche, dato l’elevato numero di polimeri presenti nella raccolta differenziata. Per non parlare dei tanti additivi, cariche e coloranti, che vengono aggiunti e che rendono a volte impossibile qualsiasi riutilizzo. È questo il motivo per cui, dopo la fatica fatta nella raccolta, molta parte della plastica finisce quasi sempre in discarica, se non in un inceneritore dove peraltro poteva essere inviata molto prima. Che fare allora?

Qualche scarto di polimero può essere riusato attraverso processi chimici che ridanno i monomeri iniziali (depolimerizzazione di nylon 6 o poliesteri particolari); in tal caso si parla di riciclo chimico, ma il suo utilizzo è limitato a pochi casi. Lo stesso vale per le bioplastiche, il cui impiego forzato non risolve né il tema del riciclo né quello dell’inquinamento.

La soluzione migliore fino a oggi utilizzata, soprattutto dalle filiere industriali, è la raccolta di singoli polimeri a fine vita; un chiaro esempio è l’industria dell’edilizia, il secondo settore per consumo di polimeri dopo l’imballaggio. Degli oltre 10 milioni di tonnellate di plastica usata in Europa nel settore ogni anno circa la metà è PVC, materiale che viene già da anni avviato a riciclo e recupero attraverso il programma VinylPlus. Nel settore dell’imballaggio il riciclo delle bottiglie in PET troverà di sicuro soluzioni positive, coinvolgendo la grande distribuzione e i consumatori, così come sta avvenendo nel settore agricolo con il riciclo dei diversi film di poliolefine. È in fase di avvio anche per le resine stireniche una filiera di riciclo, perché si è ormai compreso che il riciclo del plasmix non è fattibile se non per poche applicazioni di bassissimo valore aggiunto.

Ma questi esempi non sono i soli. Credo che in futuro potrebbero diventare molti di più soprattutto se l’industria imboccasse la sensata strada della progettazione per il disassemblaggio.


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